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Registrato e pubblicato il 4/01/2011

mercoledì 16 febbraio 2011

IL MAESTOSO CASTELLO SVEVO DI COSENZA: Vigilare sui lavori in corso

Dopo gli incontri del circolo culturale Re Alarico e le nostre ripetute segnalazioni sullo stato in cui versano il centro storico di Cosenza ed alcune sue istituzioni culturali (biblioteca civica, ex ricovero Umberto I, piazzetta Toscano), si susseguono incontri di diverse associazioni che mirano ad un recupero e aduna valorizzazione di qualità della parte antica della città. Abbiamo partecipato ad un incontro organizzato dal laboratorio culturale "Cosenza che vive", incentrato sul Castello Svevo, l'antico manufatto che domina il capoluogo da oltre due millenni. Molti gli spunti offerti dall'incontro del laboratorio culturale che da anni opera nel centro storico. C'è un progetto di restauro e valorizzazione,approvato e sponsorizzato dalla giunta comunale nel 2007,che stiamo esaminando tra le carte comunali,su cui,nell'incontro di ieri (15/2) ci si è soffermati, per evidenziarne alcune particolarità esecutive, per esempio la previsione di strutture in acciaio, la realizzazione di un ascensore, la copertura in ferro e vetro di grandi saloni. Sono emersi alcuni dubbi sulla valenza del progetto e sull'andamento dei lavori (appaltati alla Cooperativa Archeologica di Firenze, con ultimazione prevista nel giugno 2011), soprattutto perche' appaiono finalizzati ad un reimpiego della struttura e ad una funzionalizzazione avvenieristica, impropria per Cosenza e inadeguata alla importanza del monumento. Chiediamo a tutti i cittadini di buona volontà e alle associazioni piu' attive di procedere con una campagna di sensibilizzazione e di monitoraggio dello stato dell'arte. Noi ci saremo.
LA STRUTTURA DEL CASTELLO E LA SUA STORIA (brano tratto da una relazione della dott.ssa Francesca Cannataro, giornalista ed esperta in conservazione di beni culturali, che ha partecipato all'incontro citato)

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Sito sulla sommità del colle Pancrazio il castello domina imperturbato da secoli la confluenza del Crati con il Busento e tutto l’abitato cittadino da una meravigliosa posizione. Non chiara è l’origine del primo nucleo difensivo della città. Il fatto che fu costruito sulle rovine di una rocca romana ubicata in cima al colle Pancrazio è probabile, se non altro tenendo in considerazione che in ogni epoca la posizione strategica del sito deve aver suggerito di erigere lassù un fortilizio. Va in oltre tenuta presente l’esistenza in loco di alcuni ruderi di fattura romana anche se non si sa se in quest’ultimi, incorporati nella fabbrica di età posteriore, possano riconoscersi i resti della Rocca Bretica, costruita a difesa della città. Pur volendo ammettere che nulla resta dell’antica rocca costruita dai bruzi prima di lasciarsi dominare dai romani, non si può non tenere in considerazione l’esistenza di un’epigrafe trovata nei pressi del monastero delle “Cappuccinelle”, che sorge proprio sulla via del castello, che ricordava Valerio Flacco come primo restauratore del castello. Da quest’attestazione epigrafica si potrebbe arrivare alla conclusione che la rocca bretica fu restaurata dai vincitori latini, ad avvalorare la tesi di questa remota origine del castello è il pozzo presumibilmente romano che si trova in un andito nel primo piano del castello. La rocca fu poi distrutta e rasa al suolo dai saraceni, che misero a ferro e a fuoco la città per ben tre volte I lavori per la ricostruzione di una struttura fortificata iniziarono, secondo alcuni, nel 937 d.C., quando cioè “ i cosentini avevano preso atto della necessità di edificare un fortilizio a presidio dell’incolumità cittadina”, e lo riedificarono sulle rovine della fortezza, o quanto meno riutilizzandone i materiali , secondo altri nel 975 d. C, allorché i saraceni moltiplicarono le loro scorrerie. Sicuramente fu un’opera ben munita dal momento che il saraceno Saati Cayti nel 1009 non solo ne fece la sua dimora, ma ne continuò anche l’opera di costruzione. In ogni caso è pressoché impossibile riconoscere la forma e le strutture originali dell’edificio e l’ubicazione esatta della struttura fortificata nei secoli IX e immediatamente successivi, sia a causa dei rimaneggiamenti subiti dal fortilizio, sia per una sostanziale mancanza di fonti documentarie. L’ombra di notizie che avvolge il castello sembra man mano diradarsi con l’avvento dei Normanni, quando le attestazioni diventano più consistenti. Secondo l’opinione comune il castello sorse proprio ai tempi dei Normanni. Dal Manfredi, infatti, apprendiamo che: ”I Normanni cacciando i Saraceni dalla Calabria la conquistavano…I cosentini mal soffrendo che il duca (Roggero) avesse fatto fabbricare un castello nel cuore della città, segretamente si confederarono con Boemondo…”. La lotta per la successione tra i due figli di Roberto il Guiscardo, Boemondo e Ruggero II, fu lunga e aspra, interessò direttamente la nostra città e segnò le sorti del castello. Nella tregua raggiunta per intercessione dello zio Ruggero I, conte di Sicilia e fratello di Roberto il Guiscardo, e nella successiva ripartizione, Ruggero II ottenne Cosenza nel 1089. Nel 1098 Ruggero diede inizio ai lavori grazie ai quali il castello assunse i caratteri architettonici delle coeve costruzioni normanne. Le opere condotte a termine da Ruggero per il castello furono tali e tante da farlo considerare nel corso dei secoli il costruttore del monumento. I documenti affermano, infatti, che attorno al 1130 Ruggero si era stabilito a Cosenza e potrebbe essere ritenuto il primo castellano in quanto a lui si deve la ricostruzione del castello tra il 1086 e il 1132. In questo periodo il castello ebbe grande fulgore sia per la magnificenza consueta ai Normanni e ancor di più per Ruggero, amante del bello e delle arti, sia perché Cosenza visse un’epoca relativamente tranquilla, sempre in quest’epoca nel castello ebbe sede la Curia. Purtroppo indagini ed ipotesi riferibili a quest’arco cronologico risultano pressoché impossibili poiché il terremoto avvenuto nella notte tra il 9 e il 10 giugno del 1184 distrusse la città quasi nella sua totalità e anche il castello, restaurato e in qualche modo simbolo del potere e della dominazione normanna andò in rovina, anche se non completamente. Va rilevato inoltre il fatto che non esistono attestazioni certe della fase Normanna del castello o quanto meno di una struttura fortificata eretta nel luogo dove oggi sorge l’edificio. Il Castello è stato oggetto nel corso dei secoli e delle diverse dominazioni che si sono susseguite non solo di costruzioni, ricostruzioni e adattamenti per soddisfare le esigenze, militari e non, dei dominatori di turno ma anche di crolli causati da vari eventi naturali. Sicuramente l’impronta Sveva fu talmente forte da essere la prima, in ordine di tempo, ancora “visibile” ai nostri giorni. Ciò che è riconducibile con certezza a fattura sveva è anzitutto l’impianto stesso del castello a pianta rettangolare con quattro torri angolari di cui le due settentrionali quadrate e quelle meridionali ottagonali. Sveve sono le sale a nord dette Salone del ricevimento, che conservano la chiara matrice gotico – cistercense, favorita dagli svevi, e che si manifesta nei suoi caratteri essenziali quali semplicità di forme, ridotto verticalismo, e solidità delle masse murarie, sicuramente svevo è il camino all’interno di queste sale che presenta un sistema di tiraggio atto a riscaldare i piani superiori. Elemento tipicamente svevo è la teoria delle sei sale ad est definite, sala delle armi, di cui la prima si conserva in buone condizioni, nonché l’apparecchiatura muraria delle monofore e i resti del camino presente nella penultima di queste sale. Sveve sono inoltre le sale a sud, definite, sala del trono, alle quali si aveva accesso tramite un portale che oggi appare murato e ben conservato tanto che sono ancora visibili i fori per l’alloggiamento della trave che chiudeva il portale stesso. Ancora sveve sono le porte che danno accesso a tutti questi ambienti, gli antichi portali d’ingresso, quello ovest, scoperto durante i restauri del 1938 e quello est più grande. Un veloce ma doveroso accenno meritano la torre ottagonale di sud – est superstite, importante perché oltre ad essere associata ai simboli imperiali che erano il cerchio, il rettangolo e l’ottagono appunto, insieme alla torre di Enna andrà a costituire una sorta d’anticipazione dell’ottagono di Castel del Monte in provincia di Bari (ricordiamo che la presenza del simbolo dell’ottagono è una costante nella città dei bruzi un esempio per tutti è la chiesa di San Domenico che ha una cappella ottagonale, così come ottagonali sono anche le colonne del chiostro dello stesso complesso monumentale che fu costruito per volere del principe Sanseverino nel 1449 ma sembra sui resti di un’antica struttura, un tempio dedicato a San Matteo, del 1200, guarda caso la stessa epoca di Federico II. L’ottagono è una forma geometrica fortemente simbolica: si tratta della figura intermedia tra il quadrato, simbolo della terra, e il cerchio, che rappresenta l’infinità del cielo. Certamente Federico II conosceva la “magia” del numero otto dal momento che la sua incoronazione a re dei romani avvenne nella cappella palatina di Aquisgrana, un tempio a pianta ottagonale e per di più la corona che gli venne imposta era anch’essa ottagonale. L’otto é un simbolo di rinascita, di resurrezione, di avvicinamento alla perfezione, usato in tanti edifici anche sacri). Nel corso dei secoli del Castello “Normanno-Svevo” di Cosenza si sono occupati numerosi esperti che hanno effettuato studi per cogliere le molteplici sfaccettature di una fortezza che tanto affascina quanto rimane, per certi versi, avvolta da un alone di mistero. Tra le numerose analisi quella “archeoastronomica” realizzata da Adriano Gaspani e Gisella Puterio, trascina il castello in una fiumana di un fascino mistico e senza tempo. I due studiosi pongono l’accento sull’interesse verso l’astronomia che nutriva quel popolo dei Bretti a cui molti fanno risalire l’origine della motta. Un’attenzione che viene testimoniata dalle monete rinvenute nelle necropoli della zona, quali quella di Muoio, sulle quali compaiono simboli stellari e immagini della falce lunare. Il castello di Cosenza sorge su una motta di forma rettangolare posta sulla sommità del colle Pancrazio. Per i due studiosi l’orientazione della motta è astronomicamente significativa. In base ad una serie di indagini effettuate, che non stiamo a riportare in questa sede, sono arrivati alla conclusione che la posizione della motta fu presumibilmente ottenuta utilizzando le stelle. La motta rimase verosimilmente intatta sul colle Pancrazio fino all’edificazione del castello da parte dei Normanni, anche se la prima notizia esplicita della sua esistenza riporta al 1239, quindi già in epoca sveva, nel momento in cui il fortilizio viene ad essere occupato e ristrutturato da Federico II. Il castello fu adattato bene sia alla motta che al suo allineamento. L’orientazione della motta certamente condizionò quella del castello anche se non era strettamente necessario mantenerla invariata, il terrapieno poteva essere modificato in funzione della nuova costruzione, ma ciò non avvenne. I Normanni, infatti, avevano l’abitudine di orientare le loro costruzioni lungo le direzioni cardinali astronomiche secondo la vecchia tradizione vichinga, ben evidenziata nelle orientazioni dei “trelleborger” scandinavi, cioè le loro caserme, abitudine che rimase invariata anche dopo negli stanziamenti in Italia Meridionale. Per i Normanni era naturale che il manufatto difensivo fosse orientato lungo la linea meridiana, quindi non ci fu alcun bisogno di modificare la struttura della motta. Il castello venne ristrutturato da Federico II il quale fece aggiungere le due torri ottagonali lungo il lato meridionale. In questo periodo, consigliere di Federico II era l’astronomo/astrologo e matematico Michele Scoto. Egli contribuì ad introdurre in Italia l’astronomia e l’astrologia islamica, fu molto sensibile alle credenze medioevali relative al simbolismo numerico e alle orientazioni astronomiche con motivazioni simboliche e astrologiche, quindi le due torri dovettero essere a sezione ottagonale per via del simbolismo mistico relativo al numero otto. Degni di nota anche i marchi dei lapicidi presenti in maniera consistente in tutta la struttura che messi a confronto con gli analoghi presenti in altre strutture fortificate dell’epoca, testimoniano come tra il 1225 e il 1260 circa, maestranze specializzate si spostassero da un cantiere all’altro a seguito della corte sveva. È comunque accertata la presenza di una scuola calabrese di maestranze specializzate quindi si potrebbe ipotizzare nella costruzione del fortilizio un affiancamento delle une con le altre. Infine svevi sono i sotterranei che univano le due torri quadrate di nord. Nel 1268 il castello cadde in mano angioina. Gli elementi angioini presenti all’interno della struttura consistono nel corridoio d’ingresso dalle strette volte archiacute poggianti su mensole dai capitelli decorati a grandi foglie longilinee e la cui chiave d’arco è a sezione anulare con incisi i gigli di Francia. Successivamente al castello furono apportati una serie di abbellimenti per ospitare Luigi III d’Angiò che vi soggiornò con la moglie Margherita di Savoia. Dopo una serie di lunghe e cruente lotte per la successione al trono il castello passò in mano aragonese, in questo periodo si effettuarono lavori che potremmo definire di “straordinaria manutenzione”. Le riparazioni riguardarono soprattutto apprestamenti di carattere militare fu rifatta la torre esterna o rivellino. I vari interventi edilizi degli aragonesi non apportarono modifiche sostanziali alla struttura, l’unica attestazione certa del dominio aragonese è data dallo stemma che sormonta il portale maggiore di est. Dal 1458 al 1461 il castello fu adibito a zecca per lo stato. Nel 1500 il castello viene citato tra i più efficienti del regno, fu riportato alla sua funzione primaria di edificio militare. Sono inoltre presenti numerose rappresentazioni grafiche del castello: la prima, in ordine di tempo, è quella del frate agostiniano Angelo Rocca, appassionato di rappresentazioni dei tessuti urbani, illustra la città situata all’incontro dei due fiumi e sulla sommità della quale è chiaramente rappresentato il castello (1583-1584); altra rappresentazione è il disegno e la relazione di Padre Giovanni Camerota risalente al 1595 in cui è illustrata la facciata est del castello con uno stile semplice ma accurato nel quale appaiono evidenti la torre ottagonale, la torre quadrata, le monofore (elementi ancora esistenti) mentre le merlature, che univano tutta la cortina, chiaramente evidenti nel disegno, crollarono o furono demolite. Terzo importante documento iconografico è la stampa dell’abate Pacichelli datato 1693 il castello sarebbe nel periodo della visita dell’abate in piena funzionalità, vista la rappresentazione della bandiera spiegata in cima al castello; ultima attestazione è un atto un po’ più tardo del castello, un contratto del 1695 con il quale la badessa del monastero di Gesù e Maria stabiliva un contratto d’affitto di un terreno adiacente al castello, e presenta al suo interno la planimetria della zona, visibile il portale d’ingresso ad est. I movimenti tellurici rovinarono molte parti del castello nel 1640 crollò la torre maggiore di nord-ovest e nel 1656 un fulmine colpì la torre ottagonale di sud – ovest facendola esplodere il che lascia presumere che in quel periodo la stessa veniva utilizzata come polveriera. Da qui inizia il periodo di decadenza almeno nella sua funzione originaria infatti intorno al 1750 Monsignor Galeota pensò di utilizzarlo come sede estiva dell’episcopio e dell’arcivescovato. I lavori per il riadattamento comprendevano una struttura a tre piani per ospitare le stanze dei seminaristi realizzata all’interno del cortile, un chiostro e una scala in calcare locale che conduceva ai piani superiori. Ulteriori modifiche furono apportate dall’arcivescovo Francone, fu realizzata la costruzione del porticato fra le due torri settentrionali, murato l’ingresso originario alla struttura e ricavato uno al centro sormontato dallo stemma dello stesso arcivescovo. Ai primi dell’ottocento risalgono invece i due bastioni posti sul lato ovest. Il racconto degli ultimi cento anni del maniero bruzio si risolve in un triste elenco di distruzioni avvenute a causa dei numerosi terremoti che lo hanno ridotto a rudere e a “semplice” monumento, infatti, nell’ultimo secolo la struttura ha cessato qualsiasi funzione sia di tipo militare che d’altro utilizzo. Il sisma del 4 ottobre 1870, con epicentro a Cosenza, danneggiò gravemente il castello che con la legge speciale del 4 febbraio 1887 divenne proprietà del comune. Nel 1905 un nuovo fortissimo terremoto continuò ad aggravarne la situazione già di per se critica, da allora, fino al 1927, rimase in stato di completo abbandono. Nel corso del ‘900 fu sottoposto a vari restauri parziali più volte interrotti. Nel 1940 si realizzò il restauro del “Salone del Ricevimento”. Nel 1952 vi furono lavori di sottofondazione e pavimentazione e il ripristino della copertura della “Sala delle Armi”. Nel 1953 furono portati a termine lavori di consolidamento dell’ala est. Nel 1954 furono ripristinate le feritoie della torre quadrata a nord-ovest, nonché la sistemazione definitiva della cappa e del focolaio del grande camino Svevo. Nel 1963 – 64 si rifece la copertura del salone del primo piano; il restauro della cisterna ubicata nell’ultimo degli ambienti dell’ala est e sempre nella stessa ala fu attuato il rifacimento dei capitelli. Nel 1970 – 1971 si eseguirono i lavori di consolidamento della scarpata sottostante la torre ottagonale, del muro di contenimento a nord, di quello a sud; la riparazione di diverse lesioni ed il restauro di alcuni particolari, tra i quali gli archi della scala settecentesca. Nel 1990 iniziò un intervento di consolidamento della torre di nord – ovest e durante un’operazione di pulitura della facciata, furono scoperte opere in pietra, come i pozzi dove convogliavano le acque piovane realizzati in età federiciana, oltre alcuni cocci di età rinascimentale. Nel 1992, sempre a scopo di consolidamento, si praticarono iniezioni di cemento lungo le pareti esterne della torre di nord– est.
“Ora è lì riposante nelle sue rovine inoperoso ma superbo nella sua millenaria esistenza”.

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