Parte il nostro primo sondaggio in vista delle elezioni amministrative del prossimo maggio.
Riceviamo molte indicazioni e richieste, spesso discordanti, sui candidati a sindaco di Cosenza. Giustamente, da destra e sinistra, si osserva che gli schemi della competizione quest'anno presentano qualcosa di particolare.
I nostri amici e simpatizzanti chiedono certezza e trasparenza nella partecipazione e nel sostegno da conferire alle coalizioni in campo.
Niente assegni in bianco, insomma, nessun ancoraggio ideologico da dare in pasto a chi si gode stipendi e prebende regionali guardando come un giochino a Cosenza.
Di certo è cresciuta la voglia di partecipare fuori dai partiti, fuori dalle logiche spartitorie, salottiere e fasulle dei parvenues vecchi e nuovi della politica cosentina.
Da noi si lavora per la qualità e non per le poltrone, per la crescita culturale e sociale, non per gli affaracci di quattro gatti.
I tempi della politica che ridà il lucido e rende tutto e tutti commestibili è finito.
Da parte nostra massima disponibilità, all'insegna della pura appartenenza civica, con quel candidato sindaco che ci parlerà con lealtà e che vorrà ascoltarci durante tutto il suo mandato.
DECIDIAMO INSIEME: con una email tutti potranno darci suggerimenti e guidarci verso la scelta del miglior candidato a sindaco tra quelli schierati.
SCRIVETECI A: atenecalabria@gmail.comil volantino
Per info e adesioni: atenecalabria@gmail.com

Registrato e pubblicato il 4/01/2011
venerdì 18 marzo 2011
domenica 13 marzo 2011
ELEZIONI AMMINISTRATIVE COSENZA: Anomalia o segnali di frantumazione politica in Italia?
Troppi sanno e vogliono fare tutto a Cosenza e Rende: le scadenze elettorali ravvivano allodole e cacciatori.
Non a caso, gli scienziati da circolo della briscola, che snocciolano dietroscena politici come tabelline (si lavora poco, anche da stipendiati pubblici), vivono un momento di grande ed emozionante fervore, perchè stavolta, seriamente e come mai prima, pensano che è utile candidarsi da qualche parte.
Si vota a metà maggio, mentre i partiti e le coalizioni sono ancora silenti, oppure si logorano a voce intonata.
Gli "accordatori" rimangono gli stessi da 20 anni, chi piu', chi meno slavato, mentre la generazione sparente (la mia) se non vive di polvere servile da segreteria di consunta baronpolitik, attende segnali di verità dalla stampa.
E' la crisi maleodorante in avvicinamento: tutti hanno paura di perdere un seggio in Consiglio comunale e tutti si sentono meritevoli di avercelo. Anche perchè in molti si infilano nella mischia per avere altro che spazio politico: con un consiglio comunale ridotto a mercato delle vacche, ci aspettiamo rivoluzioni in 24ore?
Due candidati al sedile di Sindaco civici (Paolini e Nucci), che verificheremo quanto e come resisteranno alle lusinghe e alle paranoie da potere dei paritocrati sbeffeggianti la partecipazione e la democrazia; un candidato ufficializzato a Roma da UDC e PDL (Occhiuto), che però FLI e API e Storace vorrebbero fosse di loro primogenitura.
Qualcuno è in campagna elettorale col posticino assicurato dai capi, mentre altri, tanti, andranno a servire al buio mister quorum di lista.
Candidati emozionali senza sponda politica, candidati civetta, candidati di partiti divisi: tutti in fila, al momento, mentre noi ancora rimaniamo in attesa di capire cosa vogliono e possono fare per il bene comune, per lo sviluppo e la rinascita di Cosenza.
Al Nord, in molti centri importanti, tra primarie civetta e bullismo interno al centrodestra, il panorama non è dissimile: Politica zero e Comuni visti come feudi.
Non siamo diversi, ma abbiamo piu' fame e siamo sempre meno (chi puo' è fuggito altrove per lavorare o qualificarsi).
Un pessimo sindaco e un pessimo pool di assessori distruggono quel che rimane del PD a Cosenza, vuoi per i figli da sistemare al meglio, vuoi per la verifica di apporti trasversali da pezzi di PDL.
Il nostro movimento civico, da giorni "in movimento", ha proposte adamantine che valgono per oggi e per sempre.
Le proposte di adesione ad altri gruppi, con la richiesta di una mia candidatura (a proposito, non si confonda il sottoscritto con l'omonimo che dirige il partito di Storace a Cosenza), lusingano e ci danno l'opportunità di completare al meglio la fase preparatoria di un percorso lungo e sereno che, da qui a pochi giorni, ci proietterà da protagonisti a livello comunale.
Michele Arnoni
consigliere di circoscrizione
coordinatore de "L'Atene della Calabria"
Non a caso, gli scienziati da circolo della briscola, che snocciolano dietroscena politici come tabelline (si lavora poco, anche da stipendiati pubblici), vivono un momento di grande ed emozionante fervore, perchè stavolta, seriamente e come mai prima, pensano che è utile candidarsi da qualche parte.
Si vota a metà maggio, mentre i partiti e le coalizioni sono ancora silenti, oppure si logorano a voce intonata.
Gli "accordatori" rimangono gli stessi da 20 anni, chi piu', chi meno slavato, mentre la generazione sparente (la mia) se non vive di polvere servile da segreteria di consunta baronpolitik, attende segnali di verità dalla stampa.
E' la crisi maleodorante in avvicinamento: tutti hanno paura di perdere un seggio in Consiglio comunale e tutti si sentono meritevoli di avercelo. Anche perchè in molti si infilano nella mischia per avere altro che spazio politico: con un consiglio comunale ridotto a mercato delle vacche, ci aspettiamo rivoluzioni in 24ore?
Due candidati al sedile di Sindaco civici (Paolini e Nucci), che verificheremo quanto e come resisteranno alle lusinghe e alle paranoie da potere dei paritocrati sbeffeggianti la partecipazione e la democrazia; un candidato ufficializzato a Roma da UDC e PDL (Occhiuto), che però FLI e API e Storace vorrebbero fosse di loro primogenitura.
Qualcuno è in campagna elettorale col posticino assicurato dai capi, mentre altri, tanti, andranno a servire al buio mister quorum di lista.
Candidati emozionali senza sponda politica, candidati civetta, candidati di partiti divisi: tutti in fila, al momento, mentre noi ancora rimaniamo in attesa di capire cosa vogliono e possono fare per il bene comune, per lo sviluppo e la rinascita di Cosenza.
Al Nord, in molti centri importanti, tra primarie civetta e bullismo interno al centrodestra, il panorama non è dissimile: Politica zero e Comuni visti come feudi.
Non siamo diversi, ma abbiamo piu' fame e siamo sempre meno (chi puo' è fuggito altrove per lavorare o qualificarsi).
Un pessimo sindaco e un pessimo pool di assessori distruggono quel che rimane del PD a Cosenza, vuoi per i figli da sistemare al meglio, vuoi per la verifica di apporti trasversali da pezzi di PDL.
Il nostro movimento civico, da giorni "in movimento", ha proposte adamantine che valgono per oggi e per sempre.
Le proposte di adesione ad altri gruppi, con la richiesta di una mia candidatura (a proposito, non si confonda il sottoscritto con l'omonimo che dirige il partito di Storace a Cosenza), lusingano e ci danno l'opportunità di completare al meglio la fase preparatoria di un percorso lungo e sereno che, da qui a pochi giorni, ci proietterà da protagonisti a livello comunale.
Michele Arnoni
consigliere di circoscrizione
coordinatore de "L'Atene della Calabria"
martedì 8 marzo 2011
Torniamo a parlare di ricette contro l'ingerenza politica nella sanità locale
Titoloni sulla stampa, interviste di politichese, medici che parlano solo nelle campagne elettorali, caos gestionale nella sanità cosentina: sono i temi piu' graditi per farsi propaganda. Esprimo, intanto da cittadino prima che da attivista politico, forte preoccupazione e amarezza per le polemiche, gli annunci pubblicitari, la propaganda politica personalistica, che a Cosenza stiamo subendo sul futuro della sanità locale. Non possiamo consegnare ai cittadini, ai malati, ai sofferenti, a chi vive quotidianamente disagi professionali, una immagine cosi' logora e devastante della lotta politica sul tema della salute. Leggere di continuo dei botta e risposta politichesi offende la comunità cosentina nella sua interezza; ne perde di dignità il mondo scientifico, professionale, accademico. Perchè non ci appelliamo ai tecnici, agli esperti, a chi vive il mondo medico nel silenzio e nel quotidiano sacrificio, per cercare e proporre le migliori soluzioni possibili per il futuro dell'Ospedale, dei reparti, della gestione finanziaria? Perchè offendere la nostra tradizione e pure la storia del nostro Ospedale, costruito e avviato nell'operoso silenzio, con dignità e rigore morale, nel solco di una cultura politica liberale che pure durante il fascismo era meno invasiva di quella odierna? Vogliamo riprendere, ad esempio, il tema della graduale ed effettiva separazione del mondo politico da quello amministrativo, almeno nel campo sanitario, indicando persone esperte, lasciando margini di discussione e proposta ai privati, ai professionisti liberi da catenacci ed interessi personali? Vogliamo credere e combattere per una classe politica cosentina che sappia davvero coordinare e indicare gli obiettivi senza essere, al solito, invasiva e feudale?
Michele Arnoni
sabato 5 marzo 2011
Lettera aperta di Michele Arnoni sulle celebrazioni comunali per il 150° di Unità nazionale
Se i maggiorenti politici dell'attuale amministrazione comunale intendono celebrare i 150 anni di Unità nazionale, utilizzando stemma e soldi pubblici, cerchino di essere obiettivi e meno faziosi.
Si spoglino, per un attimo, della propaganda antileghista ed antiberlusconiana.
I festeggiamenti non possono avere senso unico, nè, tantomeno, ingenerare confusione con altri processi storici dei quali, magari, si pretende di onorare una matrice antinazionale, quale è quella comunista.
A Cosenza pare si stia celebrando la Liberazione del 1945, e mi preme sottolineare, allora, nel rispetto dei comuni principi costituzionali, che non bisogna mai dimenticare il contributo delle forze democratiche e popolari alla Resistenza e quello, determinante, delle forze angloamericane per la vittoria sul nazifascismo.
Nelle manifestazioni del nostro Comune si dia voce, in contraddittorio, alla cultura liberale, che piu' di ogni altra ha promosso e guidato il processo di unificazione manifestatosi nel 1861 e nel 1870.
Si dia, altresì, voce alle associazioni dei combattenti e dei reduci che onorano la memoria delle migliaia di soldati italiani che hanno completato, versando il sangue irredentista, la liberazione della zona nord orientale del Paese, così vincendo la Prima Guerra mondiale.
Mandare le nostre scuole in visita al Sacrario Militare di Redipuglia, ad esempio, poteva essere un'ottima iniziativa.
C'è da chiedere, dunque, maggiore equilibrio in chi ha possibilità di sfruttare la propria posizione pubblica, magari per rileggere od omettere pezzi di storia patria.
Michele Arnoni
consigliere di circoscrizione
coordinatore de "L'Atene della Calabria"
Si spoglino, per un attimo, della propaganda antileghista ed antiberlusconiana.
I festeggiamenti non possono avere senso unico, nè, tantomeno, ingenerare confusione con altri processi storici dei quali, magari, si pretende di onorare una matrice antinazionale, quale è quella comunista.
A Cosenza pare si stia celebrando la Liberazione del 1945, e mi preme sottolineare, allora, nel rispetto dei comuni principi costituzionali, che non bisogna mai dimenticare il contributo delle forze democratiche e popolari alla Resistenza e quello, determinante, delle forze angloamericane per la vittoria sul nazifascismo.
Nelle manifestazioni del nostro Comune si dia voce, in contraddittorio, alla cultura liberale, che piu' di ogni altra ha promosso e guidato il processo di unificazione manifestatosi nel 1861 e nel 1870.
Si dia, altresì, voce alle associazioni dei combattenti e dei reduci che onorano la memoria delle migliaia di soldati italiani che hanno completato, versando il sangue irredentista, la liberazione della zona nord orientale del Paese, così vincendo la Prima Guerra mondiale.
Mandare le nostre scuole in visita al Sacrario Militare di Redipuglia, ad esempio, poteva essere un'ottima iniziativa.
C'è da chiedere, dunque, maggiore equilibrio in chi ha possibilità di sfruttare la propria posizione pubblica, magari per rileggere od omettere pezzi di storia patria.
Michele Arnoni
consigliere di circoscrizione
coordinatore de "L'Atene della Calabria"
giovedì 17 febbraio 2011
CAMPO ROM SUL FIUME CRATI : in sette anni nessun intervento decisivo delle amministrazioni locali
La situazione del campo Rom sulla sponda del Crati, insediamento non autorizzato nè regolarizzato, è da diversi anni distratta dalle dovute attenzioni e cautele da parte del Comune e della Provincia di Cosenza. Ci risulta che le condizioni di vita dei numerosi bambini e delle famiglie più numerose, a parte il pregevole contributo di alcune associazioni poco ascoltate, non siano, nei fatti, migliorate. Parlare di scolarizzazione dei bambini, ovviamente, non risolve che in piccola parte il degrado e le pessime condizioni ambientali che tutti sembriamo tollerare. E' lecito chiedersi, allora, se le amministrazioni in carica siano capaci di risolvere o effettuare inverventi concreti su questa "ferita aperta", composta da 360 anime, oppure se non sia il caso di inserire concretamente nei programmi politici di chi pensa solo alla propria candidatura proposte sostenibili e ipotesi di progetto credibili. Intanto, si permette che a pochi metri dal "mondo civile" si viva al limite dell'umana sopportazione, si ignora che proprio da lì si potrebbe iniziare a risanare, ad integrare. Li' si comincia a fare cultura,(si invogliano queste persone a capire che sono visti come uomini,non come oggetti), lì si inizia a fare sicurezza (si evita che la disperazione prenda il sopravvento), lì si iniziano a tratteggiare i contorni di quella "città europea" che nei fatti è solo uno slogan da quasi 10 anni. I ROM sono stati sempre al centro di progetti, proposte, interventi. Solo cartacei però, nessuno di chi ne ha parlato era nella sede dell'associazione Stella Cometa a servire pasti e vestiti. Nessuno di chi ha promesso, al solito ha mantenuto. Si aspetta e ci si indigna al prossimo fatto di cronaca. In fondo il rapporto che il sopracitato "mondo civile" hai coi rom è quello che si ha con queste anime perse ai semafori. Non vorremmo che qualcuno offendesse i propri nobili occhi alla vista di quella realtà. Che insieme al MAB ed al cosenza calcio, insieme ai caffè culturali ed ai capidanno, fa parte della nostra città. Da Comune e Provincia, in questi anni, abbiamo poco percepito la capacità di utilizzare e canalizzare al meglio i fondi comunitari, nonostante alcuni specifici progetti della UE avrebbero consentito, ad esempio, una bonifica dell'area, una messa in sicurezza e l'acquisto di roulotte provvisoriamente occupabili dalle famiglie in più gravi condizioni. Alcuni progetti sono stati invece ben finanziati dal Comune di Cosenza, per cui è altresì lecito verificare se i risultati ottenuti vadano oltre la funzione di semplice palliativo. Ogni discorso sull'integrazione, sulla paventata ghettizzazione, sugli interventi della Procura, risulta, ormai da lungo tempo, infruttuoso
.
.
mercoledì 16 febbraio 2011
IL MAESTOSO CASTELLO SVEVO DI COSENZA: Vigilare sui lavori in corso
Dopo gli incontri del circolo culturale Re Alarico e le nostre ripetute segnalazioni sullo stato in cui versano il centro storico di Cosenza ed alcune sue istituzioni culturali (biblioteca civica, ex ricovero Umberto I, piazzetta Toscano), si susseguono incontri di diverse associazioni che mirano ad un recupero e aduna valorizzazione di qualità della parte antica della città. Abbiamo partecipato ad un incontro organizzato dal laboratorio culturale "Cosenza che vive", incentrato sul Castello Svevo, l'antico manufatto che domina il capoluogo da oltre due millenni. Molti gli spunti offerti dall'incontro del laboratorio culturale che da anni opera nel centro storico. C'è un progetto di restauro e valorizzazione,approvato e sponsorizzato dalla giunta comunale nel 2007,che stiamo esaminando tra le carte comunali,su cui,nell'incontro di ieri (15/2) ci si è soffermati, per evidenziarne alcune particolarità esecutive, per esempio la previsione di strutture in acciaio, la realizzazione di un ascensore, la copertura in ferro e vetro di grandi saloni. Sono emersi alcuni dubbi sulla valenza del progetto e sull'andamento dei lavori (appaltati alla Cooperativa Archeologica di Firenze, con ultimazione prevista nel giugno 2011), soprattutto perche' appaiono finalizzati ad un reimpiego della struttura e ad una funzionalizzazione avvenieristica, impropria per Cosenza e inadeguata alla importanza del monumento. Chiediamo a tutti i cittadini di buona volontà e alle associazioni piu' attive di procedere con una campagna di sensibilizzazione e di monitoraggio dello stato dell'arte. Noi ci saremo.
LA STRUTTURA DEL CASTELLO E LA SUA STORIA (brano tratto da una relazione della dott.ssa Francesca Cannataro, giornalista ed esperta in conservazione di beni culturali, che ha partecipato all'incontro citato)
)
Sito sulla sommità del colle Pancrazio il castello domina imperturbato da secoli la confluenza del Crati con il Busento e tutto l’abitato cittadino da una meravigliosa posizione. Non chiara è l’origine del primo nucleo difensivo della città. Il fatto che fu costruito sulle rovine di una rocca romana ubicata in cima al colle Pancrazio è probabile, se non altro tenendo in considerazione che in ogni epoca la posizione strategica del sito deve aver suggerito di erigere lassù un fortilizio. Va in oltre tenuta presente l’esistenza in loco di alcuni ruderi di fattura romana anche se non si sa se in quest’ultimi, incorporati nella fabbrica di età posteriore, possano riconoscersi i resti della Rocca Bretica, costruita a difesa della città. Pur volendo ammettere che nulla resta dell’antica rocca costruita dai bruzi prima di lasciarsi dominare dai romani, non si può non tenere in considerazione l’esistenza di un’epigrafe trovata nei pressi del monastero delle “Cappuccinelle”, che sorge proprio sulla via del castello, che ricordava Valerio Flacco come primo restauratore del castello. Da quest’attestazione epigrafica si potrebbe arrivare alla conclusione che la rocca bretica fu restaurata dai vincitori latini, ad avvalorare la tesi di questa remota origine del castello è il pozzo presumibilmente romano che si trova in un andito nel primo piano del castello. La rocca fu poi distrutta e rasa al suolo dai saraceni, che misero a ferro e a fuoco la città per ben tre volte I lavori per la ricostruzione di una struttura fortificata iniziarono, secondo alcuni, nel 937 d.C., quando cioè “ i cosentini avevano preso atto della necessità di edificare un fortilizio a presidio dell’incolumità cittadina”, e lo riedificarono sulle rovine della fortezza, o quanto meno riutilizzandone i materiali , secondo altri nel 975 d. C, allorché i saraceni moltiplicarono le loro scorrerie. Sicuramente fu un’opera ben munita dal momento che il saraceno Saati Cayti nel 1009 non solo ne fece la sua dimora, ma ne continuò anche l’opera di costruzione. In ogni caso è pressoché impossibile riconoscere la forma e le strutture originali dell’edificio e l’ubicazione esatta della struttura fortificata nei secoli IX e immediatamente successivi, sia a causa dei rimaneggiamenti subiti dal fortilizio, sia per una sostanziale mancanza di fonti documentarie. L’ombra di notizie che avvolge il castello sembra man mano diradarsi con l’avvento dei Normanni, quando le attestazioni diventano più consistenti. Secondo l’opinione comune il castello sorse proprio ai tempi dei Normanni. Dal Manfredi, infatti, apprendiamo che: ”I Normanni cacciando i Saraceni dalla Calabria la conquistavano…I cosentini mal soffrendo che il duca (Roggero) avesse fatto fabbricare un castello nel cuore della città, segretamente si confederarono con Boemondo…”. La lotta per la successione tra i due figli di Roberto il Guiscardo, Boemondo e Ruggero II, fu lunga e aspra, interessò direttamente la nostra città e segnò le sorti del castello. Nella tregua raggiunta per intercessione dello zio Ruggero I, conte di Sicilia e fratello di Roberto il Guiscardo, e nella successiva ripartizione, Ruggero II ottenne Cosenza nel 1089. Nel 1098 Ruggero diede inizio ai lavori grazie ai quali il castello assunse i caratteri architettonici delle coeve costruzioni normanne. Le opere condotte a termine da Ruggero per il castello furono tali e tante da farlo considerare nel corso dei secoli il costruttore del monumento. I documenti affermano, infatti, che attorno al 1130 Ruggero si era stabilito a Cosenza e potrebbe essere ritenuto il primo castellano in quanto a lui si deve la ricostruzione del castello tra il 1086 e il 1132. In questo periodo il castello ebbe grande fulgore sia per la magnificenza consueta ai Normanni e ancor di più per Ruggero, amante del bello e delle arti, sia perché Cosenza visse un’epoca relativamente tranquilla, sempre in quest’epoca nel castello ebbe sede la Curia. Purtroppo indagini ed ipotesi riferibili a quest’arco cronologico risultano pressoché impossibili poiché il terremoto avvenuto nella notte tra il 9 e il 10 giugno del 1184 distrusse la città quasi nella sua totalità e anche il castello, restaurato e in qualche modo simbolo del potere e della dominazione normanna andò in rovina, anche se non completamente. Va rilevato inoltre il fatto che non esistono attestazioni certe della fase Normanna del castello o quanto meno di una struttura fortificata eretta nel luogo dove oggi sorge l’edificio. Il Castello è stato oggetto nel corso dei secoli e delle diverse dominazioni che si sono susseguite non solo di costruzioni, ricostruzioni e adattamenti per soddisfare le esigenze, militari e non, dei dominatori di turno ma anche di crolli causati da vari eventi naturali. Sicuramente l’impronta Sveva fu talmente forte da essere la prima, in ordine di tempo, ancora “visibile” ai nostri giorni. Ciò che è riconducibile con certezza a fattura sveva è anzitutto l’impianto stesso del castello a pianta rettangolare con quattro torri angolari di cui le due settentrionali quadrate e quelle meridionali ottagonali. Sveve sono le sale a nord dette Salone del ricevimento, che conservano la chiara matrice gotico – cistercense, favorita dagli svevi, e che si manifesta nei suoi caratteri essenziali quali semplicità di forme, ridotto verticalismo, e solidità delle masse murarie, sicuramente svevo è il camino all’interno di queste sale che presenta un sistema di tiraggio atto a riscaldare i piani superiori. Elemento tipicamente svevo è la teoria delle sei sale ad est definite, sala delle armi, di cui la prima si conserva in buone condizioni, nonché l’apparecchiatura muraria delle monofore e i resti del camino presente nella penultima di queste sale. Sveve sono inoltre le sale a sud, definite, sala del trono, alle quali si aveva accesso tramite un portale che oggi appare murato e ben conservato tanto che sono ancora visibili i fori per l’alloggiamento della trave che chiudeva il portale stesso. Ancora sveve sono le porte che danno accesso a tutti questi ambienti, gli antichi portali d’ingresso, quello ovest, scoperto durante i restauri del 1938 e quello est più grande. Un veloce ma doveroso accenno meritano la torre ottagonale di sud – est superstite, importante perché oltre ad essere associata ai simboli imperiali che erano il cerchio, il rettangolo e l’ottagono appunto, insieme alla torre di Enna andrà a costituire una sorta d’anticipazione dell’ottagono di Castel del Monte in provincia di Bari (ricordiamo che la presenza del simbolo dell’ottagono è una costante nella città dei bruzi un esempio per tutti è la chiesa di San Domenico che ha una cappella ottagonale, così come ottagonali sono anche le colonne del chiostro dello stesso complesso monumentale che fu costruito per volere del principe Sanseverino nel 1449 ma sembra sui resti di un’antica struttura, un tempio dedicato a San Matteo, del 1200, guarda caso la stessa epoca di Federico II. L’ottagono è una forma geometrica fortemente simbolica: si tratta della figura intermedia tra il quadrato, simbolo della terra, e il cerchio, che rappresenta l’infinità del cielo. Certamente Federico II conosceva la “magia” del numero otto dal momento che la sua incoronazione a re dei romani avvenne nella cappella palatina di Aquisgrana, un tempio a pianta ottagonale e per di più la corona che gli venne imposta era anch’essa ottagonale. L’otto é un simbolo di rinascita, di resurrezione, di avvicinamento alla perfezione, usato in tanti edifici anche sacri). Nel corso dei secoli del Castello “Normanno-Svevo” di Cosenza si sono occupati numerosi esperti che hanno effettuato studi per cogliere le molteplici sfaccettature di una fortezza che tanto affascina quanto rimane, per certi versi, avvolta da un alone di mistero. Tra le numerose analisi quella “archeoastronomica” realizzata da Adriano Gaspani e Gisella Puterio, trascina il castello in una fiumana di un fascino mistico e senza tempo. I due studiosi pongono l’accento sull’interesse verso l’astronomia che nutriva quel popolo dei Bretti a cui molti fanno risalire l’origine della motta. Un’attenzione che viene testimoniata dalle monete rinvenute nelle necropoli della zona, quali quella di Muoio, sulle quali compaiono simboli stellari e immagini della falce lunare. Il castello di Cosenza sorge su una motta di forma rettangolare posta sulla sommità del colle Pancrazio. Per i due studiosi l’orientazione della motta è astronomicamente significativa. In base ad una serie di indagini effettuate, che non stiamo a riportare in questa sede, sono arrivati alla conclusione che la posizione della motta fu presumibilmente ottenuta utilizzando le stelle. La motta rimase verosimilmente intatta sul colle Pancrazio fino all’edificazione del castello da parte dei Normanni, anche se la prima notizia esplicita della sua esistenza riporta al 1239, quindi già in epoca sveva, nel momento in cui il fortilizio viene ad essere occupato e ristrutturato da Federico II. Il castello fu adattato bene sia alla motta che al suo allineamento. L’orientazione della motta certamente condizionò quella del castello anche se non era strettamente necessario mantenerla invariata, il terrapieno poteva essere modificato in funzione della nuova costruzione, ma ciò non avvenne. I Normanni, infatti, avevano l’abitudine di orientare le loro costruzioni lungo le direzioni cardinali astronomiche secondo la vecchia tradizione vichinga, ben evidenziata nelle orientazioni dei “trelleborger” scandinavi, cioè le loro caserme, abitudine che rimase invariata anche dopo negli stanziamenti in Italia Meridionale. Per i Normanni era naturale che il manufatto difensivo fosse orientato lungo la linea meridiana, quindi non ci fu alcun bisogno di modificare la struttura della motta. Il castello venne ristrutturato da Federico II il quale fece aggiungere le due torri ottagonali lungo il lato meridionale. In questo periodo, consigliere di Federico II era l’astronomo/astrologo e matematico Michele Scoto. Egli contribuì ad introdurre in Italia l’astronomia e l’astrologia islamica, fu molto sensibile alle credenze medioevali relative al simbolismo numerico e alle orientazioni astronomiche con motivazioni simboliche e astrologiche, quindi le due torri dovettero essere a sezione ottagonale per via del simbolismo mistico relativo al numero otto. Degni di nota anche i marchi dei lapicidi presenti in maniera consistente in tutta la struttura che messi a confronto con gli analoghi presenti in altre strutture fortificate dell’epoca, testimoniano come tra il 1225 e il 1260 circa, maestranze specializzate si spostassero da un cantiere all’altro a seguito della corte sveva. È comunque accertata la presenza di una scuola calabrese di maestranze specializzate quindi si potrebbe ipotizzare nella costruzione del fortilizio un affiancamento delle une con le altre. Infine svevi sono i sotterranei che univano le due torri quadrate di nord. Nel 1268 il castello cadde in mano angioina. Gli elementi angioini presenti all’interno della struttura consistono nel corridoio d’ingresso dalle strette volte archiacute poggianti su mensole dai capitelli decorati a grandi foglie longilinee e la cui chiave d’arco è a sezione anulare con incisi i gigli di Francia. Successivamente al castello furono apportati una serie di abbellimenti per ospitare Luigi III d’Angiò che vi soggiornò con la moglie Margherita di Savoia. Dopo una serie di lunghe e cruente lotte per la successione al trono il castello passò in mano aragonese, in questo periodo si effettuarono lavori che potremmo definire di “straordinaria manutenzione”. Le riparazioni riguardarono soprattutto apprestamenti di carattere militare fu rifatta la torre esterna o rivellino. I vari interventi edilizi degli aragonesi non apportarono modifiche sostanziali alla struttura, l’unica attestazione certa del dominio aragonese è data dallo stemma che sormonta il portale maggiore di est. Dal 1458 al 1461 il castello fu adibito a zecca per lo stato. Nel 1500 il castello viene citato tra i più efficienti del regno, fu riportato alla sua funzione primaria di edificio militare. Sono inoltre presenti numerose rappresentazioni grafiche del castello: la prima, in ordine di tempo, è quella del frate agostiniano Angelo Rocca, appassionato di rappresentazioni dei tessuti urbani, illustra la città situata all’incontro dei due fiumi e sulla sommità della quale è chiaramente rappresentato il castello (1583-1584); altra rappresentazione è il disegno e la relazione di Padre Giovanni Camerota risalente al 1595 in cui è illustrata la facciata est del castello con uno stile semplice ma accurato nel quale appaiono evidenti la torre ottagonale, la torre quadrata, le monofore (elementi ancora esistenti) mentre le merlature, che univano tutta la cortina, chiaramente evidenti nel disegno, crollarono o furono demolite. Terzo importante documento iconografico è la stampa dell’abate Pacichelli datato 1693 il castello sarebbe nel periodo della visita dell’abate in piena funzionalità, vista la rappresentazione della bandiera spiegata in cima al castello; ultima attestazione è un atto un po’ più tardo del castello, un contratto del 1695 con il quale la badessa del monastero di Gesù e Maria stabiliva un contratto d’affitto di un terreno adiacente al castello, e presenta al suo interno la planimetria della zona, visibile il portale d’ingresso ad est. I movimenti tellurici rovinarono molte parti del castello nel 1640 crollò la torre maggiore di nord-ovest e nel 1656 un fulmine colpì la torre ottagonale di sud – ovest facendola esplodere il che lascia presumere che in quel periodo la stessa veniva utilizzata come polveriera. Da qui inizia il periodo di decadenza almeno nella sua funzione originaria infatti intorno al 1750 Monsignor Galeota pensò di utilizzarlo come sede estiva dell’episcopio e dell’arcivescovato. I lavori per il riadattamento comprendevano una struttura a tre piani per ospitare le stanze dei seminaristi realizzata all’interno del cortile, un chiostro e una scala in calcare locale che conduceva ai piani superiori. Ulteriori modifiche furono apportate dall’arcivescovo Francone, fu realizzata la costruzione del porticato fra le due torri settentrionali, murato l’ingresso originario alla struttura e ricavato uno al centro sormontato dallo stemma dello stesso arcivescovo. Ai primi dell’ottocento risalgono invece i due bastioni posti sul lato ovest. Il racconto degli ultimi cento anni del maniero bruzio si risolve in un triste elenco di distruzioni avvenute a causa dei numerosi terremoti che lo hanno ridotto a rudere e a “semplice” monumento, infatti, nell’ultimo secolo la struttura ha cessato qualsiasi funzione sia di tipo militare che d’altro utilizzo. Il sisma del 4 ottobre 1870, con epicentro a Cosenza, danneggiò gravemente il castello che con la legge speciale del 4 febbraio 1887 divenne proprietà del comune. Nel 1905 un nuovo fortissimo terremoto continuò ad aggravarne la situazione già di per se critica, da allora, fino al 1927, rimase in stato di completo abbandono. Nel corso del ‘900 fu sottoposto a vari restauri parziali più volte interrotti. Nel 1940 si realizzò il restauro del “Salone del Ricevimento”. Nel 1952 vi furono lavori di sottofondazione e pavimentazione e il ripristino della copertura della “Sala delle Armi”. Nel 1953 furono portati a termine lavori di consolidamento dell’ala est. Nel 1954 furono ripristinate le feritoie della torre quadrata a nord-ovest, nonché la sistemazione definitiva della cappa e del focolaio del grande camino Svevo. Nel 1963 – 64 si rifece la copertura del salone del primo piano; il restauro della cisterna ubicata nell’ultimo degli ambienti dell’ala est e sempre nella stessa ala fu attuato il rifacimento dei capitelli. Nel 1970 – 1971 si eseguirono i lavori di consolidamento della scarpata sottostante la torre ottagonale, del muro di contenimento a nord, di quello a sud; la riparazione di diverse lesioni ed il restauro di alcuni particolari, tra i quali gli archi della scala settecentesca. Nel 1990 iniziò un intervento di consolidamento della torre di nord – ovest e durante un’operazione di pulitura della facciata, furono scoperte opere in pietra, come i pozzi dove convogliavano le acque piovane realizzati in età federiciana, oltre alcuni cocci di età rinascimentale. Nel 1992, sempre a scopo di consolidamento, si praticarono iniezioni di cemento lungo le pareti esterne della torre di nord– est.
“Ora è lì riposante nelle sue rovine inoperoso ma superbo nella sua millenaria esistenza”.
LA STRUTTURA DEL CASTELLO E LA SUA STORIA (brano tratto da una relazione della dott.ssa Francesca Cannataro, giornalista ed esperta in conservazione di beni culturali, che ha partecipato all'incontro citato)
)
Sito sulla sommità del colle Pancrazio il castello domina imperturbato da secoli la confluenza del Crati con il Busento e tutto l’abitato cittadino da una meravigliosa posizione. Non chiara è l’origine del primo nucleo difensivo della città. Il fatto che fu costruito sulle rovine di una rocca romana ubicata in cima al colle Pancrazio è probabile, se non altro tenendo in considerazione che in ogni epoca la posizione strategica del sito deve aver suggerito di erigere lassù un fortilizio. Va in oltre tenuta presente l’esistenza in loco di alcuni ruderi di fattura romana anche se non si sa se in quest’ultimi, incorporati nella fabbrica di età posteriore, possano riconoscersi i resti della Rocca Bretica, costruita a difesa della città. Pur volendo ammettere che nulla resta dell’antica rocca costruita dai bruzi prima di lasciarsi dominare dai romani, non si può non tenere in considerazione l’esistenza di un’epigrafe trovata nei pressi del monastero delle “Cappuccinelle”, che sorge proprio sulla via del castello, che ricordava Valerio Flacco come primo restauratore del castello. Da quest’attestazione epigrafica si potrebbe arrivare alla conclusione che la rocca bretica fu restaurata dai vincitori latini, ad avvalorare la tesi di questa remota origine del castello è il pozzo presumibilmente romano che si trova in un andito nel primo piano del castello. La rocca fu poi distrutta e rasa al suolo dai saraceni, che misero a ferro e a fuoco la città per ben tre volte I lavori per la ricostruzione di una struttura fortificata iniziarono, secondo alcuni, nel 937 d.C., quando cioè “ i cosentini avevano preso atto della necessità di edificare un fortilizio a presidio dell’incolumità cittadina”, e lo riedificarono sulle rovine della fortezza, o quanto meno riutilizzandone i materiali , secondo altri nel 975 d. C, allorché i saraceni moltiplicarono le loro scorrerie. Sicuramente fu un’opera ben munita dal momento che il saraceno Saati Cayti nel 1009 non solo ne fece la sua dimora, ma ne continuò anche l’opera di costruzione. In ogni caso è pressoché impossibile riconoscere la forma e le strutture originali dell’edificio e l’ubicazione esatta della struttura fortificata nei secoli IX e immediatamente successivi, sia a causa dei rimaneggiamenti subiti dal fortilizio, sia per una sostanziale mancanza di fonti documentarie. L’ombra di notizie che avvolge il castello sembra man mano diradarsi con l’avvento dei Normanni, quando le attestazioni diventano più consistenti. Secondo l’opinione comune il castello sorse proprio ai tempi dei Normanni. Dal Manfredi, infatti, apprendiamo che: ”I Normanni cacciando i Saraceni dalla Calabria la conquistavano…I cosentini mal soffrendo che il duca (Roggero) avesse fatto fabbricare un castello nel cuore della città, segretamente si confederarono con Boemondo…”. La lotta per la successione tra i due figli di Roberto il Guiscardo, Boemondo e Ruggero II, fu lunga e aspra, interessò direttamente la nostra città e segnò le sorti del castello. Nella tregua raggiunta per intercessione dello zio Ruggero I, conte di Sicilia e fratello di Roberto il Guiscardo, e nella successiva ripartizione, Ruggero II ottenne Cosenza nel 1089. Nel 1098 Ruggero diede inizio ai lavori grazie ai quali il castello assunse i caratteri architettonici delle coeve costruzioni normanne. Le opere condotte a termine da Ruggero per il castello furono tali e tante da farlo considerare nel corso dei secoli il costruttore del monumento. I documenti affermano, infatti, che attorno al 1130 Ruggero si era stabilito a Cosenza e potrebbe essere ritenuto il primo castellano in quanto a lui si deve la ricostruzione del castello tra il 1086 e il 1132. In questo periodo il castello ebbe grande fulgore sia per la magnificenza consueta ai Normanni e ancor di più per Ruggero, amante del bello e delle arti, sia perché Cosenza visse un’epoca relativamente tranquilla, sempre in quest’epoca nel castello ebbe sede la Curia. Purtroppo indagini ed ipotesi riferibili a quest’arco cronologico risultano pressoché impossibili poiché il terremoto avvenuto nella notte tra il 9 e il 10 giugno del 1184 distrusse la città quasi nella sua totalità e anche il castello, restaurato e in qualche modo simbolo del potere e della dominazione normanna andò in rovina, anche se non completamente. Va rilevato inoltre il fatto che non esistono attestazioni certe della fase Normanna del castello o quanto meno di una struttura fortificata eretta nel luogo dove oggi sorge l’edificio. Il Castello è stato oggetto nel corso dei secoli e delle diverse dominazioni che si sono susseguite non solo di costruzioni, ricostruzioni e adattamenti per soddisfare le esigenze, militari e non, dei dominatori di turno ma anche di crolli causati da vari eventi naturali. Sicuramente l’impronta Sveva fu talmente forte da essere la prima, in ordine di tempo, ancora “visibile” ai nostri giorni. Ciò che è riconducibile con certezza a fattura sveva è anzitutto l’impianto stesso del castello a pianta rettangolare con quattro torri angolari di cui le due settentrionali quadrate e quelle meridionali ottagonali. Sveve sono le sale a nord dette Salone del ricevimento, che conservano la chiara matrice gotico – cistercense, favorita dagli svevi, e che si manifesta nei suoi caratteri essenziali quali semplicità di forme, ridotto verticalismo, e solidità delle masse murarie, sicuramente svevo è il camino all’interno di queste sale che presenta un sistema di tiraggio atto a riscaldare i piani superiori. Elemento tipicamente svevo è la teoria delle sei sale ad est definite, sala delle armi, di cui la prima si conserva in buone condizioni, nonché l’apparecchiatura muraria delle monofore e i resti del camino presente nella penultima di queste sale. Sveve sono inoltre le sale a sud, definite, sala del trono, alle quali si aveva accesso tramite un portale che oggi appare murato e ben conservato tanto che sono ancora visibili i fori per l’alloggiamento della trave che chiudeva il portale stesso. Ancora sveve sono le porte che danno accesso a tutti questi ambienti, gli antichi portali d’ingresso, quello ovest, scoperto durante i restauri del 1938 e quello est più grande. Un veloce ma doveroso accenno meritano la torre ottagonale di sud – est superstite, importante perché oltre ad essere associata ai simboli imperiali che erano il cerchio, il rettangolo e l’ottagono appunto, insieme alla torre di Enna andrà a costituire una sorta d’anticipazione dell’ottagono di Castel del Monte in provincia di Bari (ricordiamo che la presenza del simbolo dell’ottagono è una costante nella città dei bruzi un esempio per tutti è la chiesa di San Domenico che ha una cappella ottagonale, così come ottagonali sono anche le colonne del chiostro dello stesso complesso monumentale che fu costruito per volere del principe Sanseverino nel 1449 ma sembra sui resti di un’antica struttura, un tempio dedicato a San Matteo, del 1200, guarda caso la stessa epoca di Federico II. L’ottagono è una forma geometrica fortemente simbolica: si tratta della figura intermedia tra il quadrato, simbolo della terra, e il cerchio, che rappresenta l’infinità del cielo. Certamente Federico II conosceva la “magia” del numero otto dal momento che la sua incoronazione a re dei romani avvenne nella cappella palatina di Aquisgrana, un tempio a pianta ottagonale e per di più la corona che gli venne imposta era anch’essa ottagonale. L’otto é un simbolo di rinascita, di resurrezione, di avvicinamento alla perfezione, usato in tanti edifici anche sacri). Nel corso dei secoli del Castello “Normanno-Svevo” di Cosenza si sono occupati numerosi esperti che hanno effettuato studi per cogliere le molteplici sfaccettature di una fortezza che tanto affascina quanto rimane, per certi versi, avvolta da un alone di mistero. Tra le numerose analisi quella “archeoastronomica” realizzata da Adriano Gaspani e Gisella Puterio, trascina il castello in una fiumana di un fascino mistico e senza tempo. I due studiosi pongono l’accento sull’interesse verso l’astronomia che nutriva quel popolo dei Bretti a cui molti fanno risalire l’origine della motta. Un’attenzione che viene testimoniata dalle monete rinvenute nelle necropoli della zona, quali quella di Muoio, sulle quali compaiono simboli stellari e immagini della falce lunare. Il castello di Cosenza sorge su una motta di forma rettangolare posta sulla sommità del colle Pancrazio. Per i due studiosi l’orientazione della motta è astronomicamente significativa. In base ad una serie di indagini effettuate, che non stiamo a riportare in questa sede, sono arrivati alla conclusione che la posizione della motta fu presumibilmente ottenuta utilizzando le stelle. La motta rimase verosimilmente intatta sul colle Pancrazio fino all’edificazione del castello da parte dei Normanni, anche se la prima notizia esplicita della sua esistenza riporta al 1239, quindi già in epoca sveva, nel momento in cui il fortilizio viene ad essere occupato e ristrutturato da Federico II. Il castello fu adattato bene sia alla motta che al suo allineamento. L’orientazione della motta certamente condizionò quella del castello anche se non era strettamente necessario mantenerla invariata, il terrapieno poteva essere modificato in funzione della nuova costruzione, ma ciò non avvenne. I Normanni, infatti, avevano l’abitudine di orientare le loro costruzioni lungo le direzioni cardinali astronomiche secondo la vecchia tradizione vichinga, ben evidenziata nelle orientazioni dei “trelleborger” scandinavi, cioè le loro caserme, abitudine che rimase invariata anche dopo negli stanziamenti in Italia Meridionale. Per i Normanni era naturale che il manufatto difensivo fosse orientato lungo la linea meridiana, quindi non ci fu alcun bisogno di modificare la struttura della motta. Il castello venne ristrutturato da Federico II il quale fece aggiungere le due torri ottagonali lungo il lato meridionale. In questo periodo, consigliere di Federico II era l’astronomo/astrologo e matematico Michele Scoto. Egli contribuì ad introdurre in Italia l’astronomia e l’astrologia islamica, fu molto sensibile alle credenze medioevali relative al simbolismo numerico e alle orientazioni astronomiche con motivazioni simboliche e astrologiche, quindi le due torri dovettero essere a sezione ottagonale per via del simbolismo mistico relativo al numero otto. Degni di nota anche i marchi dei lapicidi presenti in maniera consistente in tutta la struttura che messi a confronto con gli analoghi presenti in altre strutture fortificate dell’epoca, testimoniano come tra il 1225 e il 1260 circa, maestranze specializzate si spostassero da un cantiere all’altro a seguito della corte sveva. È comunque accertata la presenza di una scuola calabrese di maestranze specializzate quindi si potrebbe ipotizzare nella costruzione del fortilizio un affiancamento delle une con le altre. Infine svevi sono i sotterranei che univano le due torri quadrate di nord. Nel 1268 il castello cadde in mano angioina. Gli elementi angioini presenti all’interno della struttura consistono nel corridoio d’ingresso dalle strette volte archiacute poggianti su mensole dai capitelli decorati a grandi foglie longilinee e la cui chiave d’arco è a sezione anulare con incisi i gigli di Francia. Successivamente al castello furono apportati una serie di abbellimenti per ospitare Luigi III d’Angiò che vi soggiornò con la moglie Margherita di Savoia. Dopo una serie di lunghe e cruente lotte per la successione al trono il castello passò in mano aragonese, in questo periodo si effettuarono lavori che potremmo definire di “straordinaria manutenzione”. Le riparazioni riguardarono soprattutto apprestamenti di carattere militare fu rifatta la torre esterna o rivellino. I vari interventi edilizi degli aragonesi non apportarono modifiche sostanziali alla struttura, l’unica attestazione certa del dominio aragonese è data dallo stemma che sormonta il portale maggiore di est. Dal 1458 al 1461 il castello fu adibito a zecca per lo stato. Nel 1500 il castello viene citato tra i più efficienti del regno, fu riportato alla sua funzione primaria di edificio militare. Sono inoltre presenti numerose rappresentazioni grafiche del castello: la prima, in ordine di tempo, è quella del frate agostiniano Angelo Rocca, appassionato di rappresentazioni dei tessuti urbani, illustra la città situata all’incontro dei due fiumi e sulla sommità della quale è chiaramente rappresentato il castello (1583-1584); altra rappresentazione è il disegno e la relazione di Padre Giovanni Camerota risalente al 1595 in cui è illustrata la facciata est del castello con uno stile semplice ma accurato nel quale appaiono evidenti la torre ottagonale, la torre quadrata, le monofore (elementi ancora esistenti) mentre le merlature, che univano tutta la cortina, chiaramente evidenti nel disegno, crollarono o furono demolite. Terzo importante documento iconografico è la stampa dell’abate Pacichelli datato 1693 il castello sarebbe nel periodo della visita dell’abate in piena funzionalità, vista la rappresentazione della bandiera spiegata in cima al castello; ultima attestazione è un atto un po’ più tardo del castello, un contratto del 1695 con il quale la badessa del monastero di Gesù e Maria stabiliva un contratto d’affitto di un terreno adiacente al castello, e presenta al suo interno la planimetria della zona, visibile il portale d’ingresso ad est. I movimenti tellurici rovinarono molte parti del castello nel 1640 crollò la torre maggiore di nord-ovest e nel 1656 un fulmine colpì la torre ottagonale di sud – ovest facendola esplodere il che lascia presumere che in quel periodo la stessa veniva utilizzata come polveriera. Da qui inizia il periodo di decadenza almeno nella sua funzione originaria infatti intorno al 1750 Monsignor Galeota pensò di utilizzarlo come sede estiva dell’episcopio e dell’arcivescovato. I lavori per il riadattamento comprendevano una struttura a tre piani per ospitare le stanze dei seminaristi realizzata all’interno del cortile, un chiostro e una scala in calcare locale che conduceva ai piani superiori. Ulteriori modifiche furono apportate dall’arcivescovo Francone, fu realizzata la costruzione del porticato fra le due torri settentrionali, murato l’ingresso originario alla struttura e ricavato uno al centro sormontato dallo stemma dello stesso arcivescovo. Ai primi dell’ottocento risalgono invece i due bastioni posti sul lato ovest. Il racconto degli ultimi cento anni del maniero bruzio si risolve in un triste elenco di distruzioni avvenute a causa dei numerosi terremoti che lo hanno ridotto a rudere e a “semplice” monumento, infatti, nell’ultimo secolo la struttura ha cessato qualsiasi funzione sia di tipo militare che d’altro utilizzo. Il sisma del 4 ottobre 1870, con epicentro a Cosenza, danneggiò gravemente il castello che con la legge speciale del 4 febbraio 1887 divenne proprietà del comune. Nel 1905 un nuovo fortissimo terremoto continuò ad aggravarne la situazione già di per se critica, da allora, fino al 1927, rimase in stato di completo abbandono. Nel corso del ‘900 fu sottoposto a vari restauri parziali più volte interrotti. Nel 1940 si realizzò il restauro del “Salone del Ricevimento”. Nel 1952 vi furono lavori di sottofondazione e pavimentazione e il ripristino della copertura della “Sala delle Armi”. Nel 1953 furono portati a termine lavori di consolidamento dell’ala est. Nel 1954 furono ripristinate le feritoie della torre quadrata a nord-ovest, nonché la sistemazione definitiva della cappa e del focolaio del grande camino Svevo. Nel 1963 – 64 si rifece la copertura del salone del primo piano; il restauro della cisterna ubicata nell’ultimo degli ambienti dell’ala est e sempre nella stessa ala fu attuato il rifacimento dei capitelli. Nel 1970 – 1971 si eseguirono i lavori di consolidamento della scarpata sottostante la torre ottagonale, del muro di contenimento a nord, di quello a sud; la riparazione di diverse lesioni ed il restauro di alcuni particolari, tra i quali gli archi della scala settecentesca. Nel 1990 iniziò un intervento di consolidamento della torre di nord – ovest e durante un’operazione di pulitura della facciata, furono scoperte opere in pietra, come i pozzi dove convogliavano le acque piovane realizzati in età federiciana, oltre alcuni cocci di età rinascimentale. Nel 1992, sempre a scopo di consolidamento, si praticarono iniezioni di cemento lungo le pareti esterne della torre di nord– est.
“Ora è lì riposante nelle sue rovine inoperoso ma superbo nella sua millenaria esistenza”.
sabato 12 febbraio 2011
La Madonna del Pilerio, patrona di Cosenza. La storia e il culto
Il termine Pilerio deriva probabilmente da piliero (pilastro)oppure dal greco puleròs (guardiana, custode della porta della Città).
Il culto alla Madonna del Pilerio come Patrona di Cosenza risale alla fine del sec. XVI. Si tramanda che nell'anno 1576, mentre la peste desolava diverse regioni d'Italia, un devoto, in preghiera davanti all'icona della Madonna del Pilerio, si accorse di una macchia simile al bubbone pestifero, presente sul viso dell'Immagine.
Il fenomeno fu constatato dal popolo e dalle autorità ecclesiastiche. La macchia fu considerata come un prodigio e come segno rivelativo della protezione della Madonna per la Città di Cosenza, da lei salvata dalla peste.
Da allora la Vergine del Pilerio divenne la Protettrice della Città. La notizia del segno prodigioso non tardò a divulgarsi e dai paesi vicini iniziò un crescente accorrere di devoti.
I pellegrinaggi continuarono nel tempo e crebbero di numero, tanto che nel 1603, l'arcivescovo Mons. Giovan Battista Costanzo (1591-1617), per meglio favorire l'afflusso dei pellegrini, tolse il quadro dal luogo dove si trovava e lo collocò prima su uno dei pilastri della navata centrale del Duomo, poi sull'altare maggiore ed infine nel 1607 nella cappella appositamente costruita, dedicata alla Vergine e dove ancora oggi si venera.
Il 17 aprile 1607, su richiesta unanime dei cosentini, l'arcivescovo mons. Costanzo incoronò la Vergine del Pilerio Regina e Patrona della Città. Nel 1783 un violento terremoto si abbatté su Cosenza. In quella occasione si constatò un altro segno sul viso dell'Immagine del Pilerio. Furono da tutti notate alcune screpolature sulla pittura che poi scomparvero, ma non del tutto, una volta passato il flagello. Il 6 luglio 1798 si stabiliva la celebrazione della sua festa il giorno 8 settembre di ogni anno. Il 12 giugno 1836 l'arcivescovo mons. Lorenzo Puntillo (1833-1873) fece una seconda incoronazione con due corone d'oro e di gemme di gran valore. In seguito al terribile terremoto del 12 febbraio 1854 i cosentini chiesero e, l'11 gennaio 1855, ottennero dall'autorità ecclesiastica l'istituzione di una seconda festa, detta del patrocinio, in onore della Vergine del Pilerio, da celebrarsi ogni anno il 12 febbraio. Il 1922 avvenne una terza incoronazione, autorizzata dal Capitolo Vaticano con decreto del 4 maggio 1922 e a celebrarla fu lo stesso arcivescovo mons. Trussoni (1912-1933), che pose sul capo della Beatissima Vergine l'aurea preziosa corona. Durante la seconda guerra mondiale si ebbero a Cosenza due bombardamenti, che spopolarono la Città: il 12 aprile ed il 28 agosto 1943.
Per iniziativa dell'arcivescovo mons. Aniello Calcara (1941-1961) il 6 settembre 1943 il quadro della Madonna fu portato nel Convento dei Padri Minori di Pietrafitta.
L'anno 1948 fu caratterizzato dalla Peregrinatio Mariae, voluta e incoraggiata da mons. Aniello Calcara come preparazione remota al Congresso Mariano, programmato per il 1951, allo scopo di ravvivare ed accrescere sempre più la vera devozione alla Gran Madre di Dio e Madre nostra. Il Duomo di Cosenza fu ininterrottamente meta di molti e numerosi pellegrinaggi.
Il 20 febbraio 1980 si ebbe a Cosenza un forte terremoto che seminò il panico tra la popolazione. In quella circostanza i cosentini, che trovarono, ancora una volta, nella Madonna del Pilerio rifugio e conforto, chiesero e ottennero da mons. Augusto Lauro, amministratore apostolico della Diocesi, una processione, preceduta da un triduo di preparazione. Il 10 maggio 1981 l'arcivescovo mons. Dino Trabalzini ha elevato a santuario della Vergine SS. del Pilerio il monumentale Duomo di Cosenza. Il 6 ottobre 1984 la Cattedrale di Cosenza è stata visitata da S.S. Giovanni Paolo II. La visita del Papa, la cui devozione filiale alla Madonna contraddistingue il suo pontificato, ha costituito per il popolo Cosentino e per la Calabria tutta una occasione preziosa per rinvigorire la fede e trovare nuovo slancio e fervore anche nella devozione alla Vergine Santa. Il 10 ottobre 1988, durante la celebrazione di chiusura dell'Anno Mariano, mons.
Dino Trabalzini ha proclamato la Madonna del Pilerio Patrona principale della Diocesi di Cosenza - Bisignano e ha confermato il titolo di Patrona della Città di Cosenza. In questa stessa circostanza la Cattedrale (già per sé santuario) è stata eretta a Santuario diocesano. Il 1996 la Cattedrale è stata insignita del premio Calabria Mariana, insieme ai santuari mariani più importanti delle altre diocesi calabresi.
L'icona della Madonna del Pilerio è una insigne espressione di questa particolare forma artistica. L'iscrizione in latino dice chiaramente che non è un'icona arrivata dall'oriente, ma eseguita in ambito mediterraneo occidentale. L'icona nel corso dei secoli ha subìto vari danni ed è stata oggetto di rimaneggiamenti fino ad essere ridipinta. E' stata poi riportata alla bellezza originale nel 1976-77. L'icona si caratterizza per il Bambino che viene nutrito dal seno della Madre e dal velo rosso che elegantemente scende sul capo della Vergine. Nell'iconografia orientale l'icona della Vergine che nutre al seno il Figlio viene detta Galaktotrophousa. L'icona della Madonna del Pilerio è, dunque, primariamente, una icona Galaktotrophousa. Il velo rosso che dalla testa scende con eleganza sulla spalla sinistra caratterizza mafòrion (manto) della Vergine del Pilerio. Questo particolare la avvicina alla Vergine del monastero di Kikko a Cipro, detta la Kikkotissa. Molti altri particolari pittorici esprimono una straordinaria ricchezza di rimandi dottrinali che impreziosiscono l'icona della Madonna del Pilerio, "quasi da renderla un compendio del Nuovo Testamento". Il colore rosso è simbolo della divinità. Nella Icona è significato dalla parte del velo (maforion) che copre il capo della Vergine-Madre di Dio (Theotòkos così chiamata perché ha generato il Cristo: Figlio di Dio. I colori bleu e marrone del vestito della Vergine - Madre di Dio rappresentano la sua umanità di creatura di Dio. Le tre stelline poste sul cava e sulle spalle della Vergine- Madre di Dio vorrebbero indicare la sua perpetua verginità : prima, durante e dopo la nascita di Gesù divino Redentore dell'umanità. Oppure potrebbero anche significare che l'Economia della salvezza del genere umano è opera congiunta del Padre del Figlio e dello Spirito Santo:- la SS. Trinità. L'aureola intorno al capo della Vergine - Madre di Dio, formata da medaglioni dorati, indica che a Lei fanno corona gli 11 Apostoli , di cui è Regina, che attese nel Cenacolo di Gerusalemme l'effusione dello Spirito Santo il giorno di Pentecoste, secondo la promessa di Gesù prima di ascendere al Cielo. Il nastro color rosso che cinge il corpo nudo del Bambino Gesù che poppa in braccio alla Madre divina indica la natura divina del Figlio di Dio, incarnatosi per la redenzione degli uomini. Il doppio corpo che presenta il corpo del Bambino Gesù, sta ad indicare la duplice natura di Cristo: la natura divina e la natura umana, unite nell'unica Persona del Verbo: il Figlio eterno di Dio. L'aureola con in mezzo il segno di Croce posta dietro il suo capo sta ad indicare la sua immolazione sulla croce. E' da osservare lo sguardo del Bambino che poppa in seno alla Madre e quella della Vergine sguardo meditabondo, rivolto quasi nel vuoto, fisso, si direbbe, nel futuro e quindi alla fine dolorosa del divino suo Figlio.
Il culto alla Madonna del Pilerio come Patrona di Cosenza risale alla fine del sec. XVI. Si tramanda che nell'anno 1576, mentre la peste desolava diverse regioni d'Italia, un devoto, in preghiera davanti all'icona della Madonna del Pilerio, si accorse di una macchia simile al bubbone pestifero, presente sul viso dell'Immagine.
Il fenomeno fu constatato dal popolo e dalle autorità ecclesiastiche. La macchia fu considerata come un prodigio e come segno rivelativo della protezione della Madonna per la Città di Cosenza, da lei salvata dalla peste.
Da allora la Vergine del Pilerio divenne la Protettrice della Città. La notizia del segno prodigioso non tardò a divulgarsi e dai paesi vicini iniziò un crescente accorrere di devoti.
I pellegrinaggi continuarono nel tempo e crebbero di numero, tanto che nel 1603, l'arcivescovo Mons. Giovan Battista Costanzo (1591-1617), per meglio favorire l'afflusso dei pellegrini, tolse il quadro dal luogo dove si trovava e lo collocò prima su uno dei pilastri della navata centrale del Duomo, poi sull'altare maggiore ed infine nel 1607 nella cappella appositamente costruita, dedicata alla Vergine e dove ancora oggi si venera.
Il 17 aprile 1607, su richiesta unanime dei cosentini, l'arcivescovo mons. Costanzo incoronò la Vergine del Pilerio Regina e Patrona della Città. Nel 1783 un violento terremoto si abbatté su Cosenza. In quella occasione si constatò un altro segno sul viso dell'Immagine del Pilerio. Furono da tutti notate alcune screpolature sulla pittura che poi scomparvero, ma non del tutto, una volta passato il flagello. Il 6 luglio 1798 si stabiliva la celebrazione della sua festa il giorno 8 settembre di ogni anno. Il 12 giugno 1836 l'arcivescovo mons. Lorenzo Puntillo (1833-1873) fece una seconda incoronazione con due corone d'oro e di gemme di gran valore. In seguito al terribile terremoto del 12 febbraio 1854 i cosentini chiesero e, l'11 gennaio 1855, ottennero dall'autorità ecclesiastica l'istituzione di una seconda festa, detta del patrocinio, in onore della Vergine del Pilerio, da celebrarsi ogni anno il 12 febbraio. Il 1922 avvenne una terza incoronazione, autorizzata dal Capitolo Vaticano con decreto del 4 maggio 1922 e a celebrarla fu lo stesso arcivescovo mons. Trussoni (1912-1933), che pose sul capo della Beatissima Vergine l'aurea preziosa corona. Durante la seconda guerra mondiale si ebbero a Cosenza due bombardamenti, che spopolarono la Città: il 12 aprile ed il 28 agosto 1943.
Per iniziativa dell'arcivescovo mons. Aniello Calcara (1941-1961) il 6 settembre 1943 il quadro della Madonna fu portato nel Convento dei Padri Minori di Pietrafitta.
L'anno 1948 fu caratterizzato dalla Peregrinatio Mariae, voluta e incoraggiata da mons. Aniello Calcara come preparazione remota al Congresso Mariano, programmato per il 1951, allo scopo di ravvivare ed accrescere sempre più la vera devozione alla Gran Madre di Dio e Madre nostra. Il Duomo di Cosenza fu ininterrottamente meta di molti e numerosi pellegrinaggi.
Il 20 febbraio 1980 si ebbe a Cosenza un forte terremoto che seminò il panico tra la popolazione. In quella circostanza i cosentini, che trovarono, ancora una volta, nella Madonna del Pilerio rifugio e conforto, chiesero e ottennero da mons. Augusto Lauro, amministratore apostolico della Diocesi, una processione, preceduta da un triduo di preparazione. Il 10 maggio 1981 l'arcivescovo mons. Dino Trabalzini ha elevato a santuario della Vergine SS. del Pilerio il monumentale Duomo di Cosenza. Il 6 ottobre 1984 la Cattedrale di Cosenza è stata visitata da S.S. Giovanni Paolo II. La visita del Papa, la cui devozione filiale alla Madonna contraddistingue il suo pontificato, ha costituito per il popolo Cosentino e per la Calabria tutta una occasione preziosa per rinvigorire la fede e trovare nuovo slancio e fervore anche nella devozione alla Vergine Santa. Il 10 ottobre 1988, durante la celebrazione di chiusura dell'Anno Mariano, mons.
Dino Trabalzini ha proclamato la Madonna del Pilerio Patrona principale della Diocesi di Cosenza - Bisignano e ha confermato il titolo di Patrona della Città di Cosenza. In questa stessa circostanza la Cattedrale (già per sé santuario) è stata eretta a Santuario diocesano. Il 1996 la Cattedrale è stata insignita del premio Calabria Mariana, insieme ai santuari mariani più importanti delle altre diocesi calabresi.
L'icona della Madonna del Pilerio è una insigne espressione di questa particolare forma artistica. L'iscrizione in latino dice chiaramente che non è un'icona arrivata dall'oriente, ma eseguita in ambito mediterraneo occidentale. L'icona nel corso dei secoli ha subìto vari danni ed è stata oggetto di rimaneggiamenti fino ad essere ridipinta. E' stata poi riportata alla bellezza originale nel 1976-77. L'icona si caratterizza per il Bambino che viene nutrito dal seno della Madre e dal velo rosso che elegantemente scende sul capo della Vergine. Nell'iconografia orientale l'icona della Vergine che nutre al seno il Figlio viene detta Galaktotrophousa. L'icona della Madonna del Pilerio è, dunque, primariamente, una icona Galaktotrophousa. Il velo rosso che dalla testa scende con eleganza sulla spalla sinistra caratterizza mafòrion (manto) della Vergine del Pilerio. Questo particolare la avvicina alla Vergine del monastero di Kikko a Cipro, detta la Kikkotissa. Molti altri particolari pittorici esprimono una straordinaria ricchezza di rimandi dottrinali che impreziosiscono l'icona della Madonna del Pilerio, "quasi da renderla un compendio del Nuovo Testamento". Il colore rosso è simbolo della divinità. Nella Icona è significato dalla parte del velo (maforion) che copre il capo della Vergine-Madre di Dio (Theotòkos così chiamata perché ha generato il Cristo: Figlio di Dio. I colori bleu e marrone del vestito della Vergine - Madre di Dio rappresentano la sua umanità di creatura di Dio. Le tre stelline poste sul cava e sulle spalle della Vergine- Madre di Dio vorrebbero indicare la sua perpetua verginità : prima, durante e dopo la nascita di Gesù divino Redentore dell'umanità. Oppure potrebbero anche significare che l'Economia della salvezza del genere umano è opera congiunta del Padre del Figlio e dello Spirito Santo:- la SS. Trinità. L'aureola intorno al capo della Vergine - Madre di Dio, formata da medaglioni dorati, indica che a Lei fanno corona gli 11 Apostoli , di cui è Regina, che attese nel Cenacolo di Gerusalemme l'effusione dello Spirito Santo il giorno di Pentecoste, secondo la promessa di Gesù prima di ascendere al Cielo. Il nastro color rosso che cinge il corpo nudo del Bambino Gesù che poppa in braccio alla Madre divina indica la natura divina del Figlio di Dio, incarnatosi per la redenzione degli uomini. Il doppio corpo che presenta il corpo del Bambino Gesù, sta ad indicare la duplice natura di Cristo: la natura divina e la natura umana, unite nell'unica Persona del Verbo: il Figlio eterno di Dio. L'aureola con in mezzo il segno di Croce posta dietro il suo capo sta ad indicare la sua immolazione sulla croce. E' da osservare lo sguardo del Bambino che poppa in seno alla Madre e quella della Vergine sguardo meditabondo, rivolto quasi nel vuoto, fisso, si direbbe, nel futuro e quindi alla fine dolorosa del divino suo Figlio.
Iscriviti a:
Post (Atom)